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domenica 13 febbraio 2011

Le anime perse dei migranti di Patrasso

A poca distanza dal porto, in cima a una piccola collina, il castello di Patrasso domina il mare. E alle sue spalle la città continua monotona, con le palazzine chiare di due o tre piani e le case abbandonate che sono diventate un tetto per i migranti di Patrasso. Qualcuno dice siano cinquemila. Inesistenti per la legge degli uomini e a quanto pare anche per quella di dio.

Dietro l'angolo, ad appena una notte di viaggio da Bari, Patrasso è un punto nevralgico per chi vuole tentare di attraversare illegalmente il Mediterraneo. Le frontiere greche sono un colabrodo e sono anche le ultime rimaste a dare speranza a chi fugge da guerra e povertà.

“C'est une catastrophe”, mi dice in francese un ragazzo berbero incontrato alla stazione. Un suo amico mi racconta che lui in Italia ci ha vissuto ma, espulso, ora tenta di rientrarci. Addossati alla rete metallica e al filo spinato che costeggiano il porto e accompagnano la città nel suo dispiegarsi sulla costa, ogni giorno vedi le stesse facce stanche. Nord Africa, Africa nera, una moltitudine di afgani. Trascorrono le loro giornate aspettando l'occasione buona per saltare la rete, correre verso un camion sperando di non essere visti, infilarcisi sotto a rischio della vita per arrivare in Italia e...

É il sogno di tutti. I controlli a tappeto rendono l'impresa praticamente impossibile, a meno che non paghi i trafficanti. Eppur ci sperano o la speranza ha solo lasciato il posto all'abitudine. I militari scandagliano i camion con gli scanner e gli stessi autisti stanno attenti a non avere ospiti indesiderati per via delle multe salate. Alla fine vengono stanati e picchiati dagli uni e dagli altri. Troppo uguali a se stessi quei giorni e quei mesi passati ad aspettare.

Un ragazzo afgano, avrà avuto quindici anni, aspetta un treno su una panchina. Scolpita sul suo volto la maturità precoce e la fatica di essere solo, solamente un bambino. Va a raccogliere patate, dice nel suo inglese stentato, dieci ore al giorno gli frutteranno una ventina di euro.

C'era una volta a Patrasso un campo di baracche dove vivevano un migliaio di suoi connazionali. Un ragazzo che ci è passato mi ha detto: “entrato nella tenda per la notte, stavo attento a non toccare nulla, mi faceva tutto così schifo!” Ci avevano costruito anche una moschea, ma è stato demolito nel 2009. Prima che le sue casette di lamiere e cartoni fossero abbattute, alcune associazioni e centri sociali avevano iniziato a donare cibo e indumenti. Ma ora è tutto più difficile. I migranti sparsi per la città non si fidano, gli attivisti locali pensano alla situazione politica, ai tagli e alle proteste del sessantotto balcanico. L'indifferenza della gente che passeggia per le vie del centro e il limbo dei migranti che a due passi da lì guardano le navi salpare, sono due mondi lontanissimi.

Le politiche greche per l'integrazione sono inesistenti, la chiesa non sembra preoccuparsene e la società civile latita. Lo sfruttamento è quotidiano, i documenti una chimera. Le leggi comunitarie sono chiare: chiedere l'asilo politico in un paese dell'unione significa doverci restare. Ma per tutti la Grecia è solo una tappa di passaggio.

A chi conviene tenere tante vite appese a un filo? Soprattutto in periodo di crisi, dietro i toni roboanti dei nostri governanti, chissà quanti sotto sotto se la ridono di questa abbondanza di manodopera a basso costo e senza diritti, che spinge al ribasso i salari di tutti. Ancora una volta le politiche repressive si stanno rivelando efficaci.

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