Siamo fiori, non schiavi!


venerdì 30 luglio 2010

Che fine ha fatto la coscienza di classe!?




Conversano, giugno 2010


Il precariato? Un miraggio

Mi dice Raffaella, fresca laureata triennale e hostess a giornata in una sala da ricevimento: “sai, ci sto pensando proprio in questi giorni. Magari fossi precaria! Non penso lo sarò mai. Non vedo proprio come possa uscire da questa condizione di lavoro nero saltuario”. Visto da quaggiù anche il precariato, coi suoi contratti estremamente flessibili e brevi, ha il sapore di un miraggio.

C'era una volta la coscienza di classe
Cantavano Paolo Pietrangeli e Giovanna Marini: “anche l'operaio vuole il figlio dottore. E pensi che ambiente che può venir fuori: non c'è più morale, contessa!”
La coscienza di classe è a brandelli, in particolare tra i precari.
Giorni fa, a tarda notte, in un bar del centro dove avevo appena fatto colazione, scambio due chiacchiere col giovane cameriere. Gli faccio qualche domanda. Mi dice che ha appena iniziato a lavorare lì, che non sa ancora quanto gli daranno e che il turno che inizia il pomeriggio, termina all'alba. Cerco di capire cosa pensi delle sue condizioni di lavoro. Mi risponde seccato, dicendo che sul lavoro si fa rispettare e che non si preoccupa di questi problemi.
Altro episodio: parlo con un architetto trentenne iscritto all'albo, persona colta e intellettualmente vivace che da 2-3 mesi ha iniziato a collaborare con uno studio della nostra città. Mi dice che fino a quel momento gli hanno dato solo 250 euro. Prendo la palla al balzo e gli chiedo di raccontarmi la sua 'vita precaria'. Niente da fare. Mi risponde: “tra due giorni il titolare mi dovrà dare dei soldi e spero che allora le cose andranno bene”.
Ma in fondo di che ci stupiamo? Se anche il sindacato, che dovrebbe tutelare i diritti dei lavoratori, non paga alcuni suoi collaboratori (avviene a Conversano), non c'è da stupirsi che si sia smarrita la solidarietà. Non c'è più morale, è vero, e se la coscienza della propria condizione è il primo passo verso il riscatto, allora siamo proprio fregati. Eppure, quanti ce la faranno? E gli altri?

L'accesso al credito come diritto universale
Per evitare che questa rubrica diventi una lamentela sterile e un po' isterica, iniziamo ad avanzare proposte. Non speriamo di trasformare la situazione in un batter di ciglia, ma siamo convinti che la conoscenza, o meglio la 'coscienza', siano un motore essenziale del cambiamento. Riproponiamo in questo caso un'idea del Premio Nobel per la Pace Mohammad Yunus, geniale attuatore su vasta scala del microcredito. Afferma nella sua celebre opera “Il banchiere dei poveri” (Feltrinelli), che l'accesso al credito dovrebbe essere inserito tra i diritti universali dell'uomo. In un mondo dove la disoccupazione è la norma, una via d'uscita da povertà e precariato sono l'autoimpiego e la microimprenditorialità. Per avviare attività economiche, è necessario possedere un capitale di partenza, che nessuno (o quasi) è disposto a concederti, se non in cambio di solide garanzie (il solito paradosso: se avessi le garanzie, che bisogno avrei di chiedere un prestito?). Yunus e la sua Grameen Bank hanno ribaltato questa concezione, concedendo prestiti proprio a chi non possedeva nulla. Negli ultimi anni alcune iniziative pubbliche sono andate in questa direzione. Il programma regionale Principi Attivi, ad esempio, punta sulla capacità dei più giovani di costruirsi il proprio futuro partendo da un capitale a fondo perduto. Discorso simile per i finanziamenti di Sviluppo Italia. Ma sono ancora solo una goccia nel mare.

Nessun commento: